Elezioni Amministrative. La debolezza dei partiti premi il partito del non voto

Le elezioni amministrative del 3 e 4 ottobre hanno avuto un unico e solo vincitore, il partito del non voto. Il partito dell’astensione raggiunge quasi il 50%. Tranne in alcuni comuni un italiano su due non si è recato alle urne per scegliere il proprio sindaco. Un dato drammatico che sintetizza più che lo stato della democrazia, che sopravvive anche se non sfruttata in tutte le sue potenzialità attraverso il voto, il prolungato declino dei partiti. I cittadini si stanno sempre di più allontanando dalla politica perché non hanno più fiducia in essa. La vedono lontana e come un affare ‘privato’ giocata e praticata solo sui social e nei palazzi del potere e non sui territori. Utilizzare i nuovi metodi di comunicazione è utile per informare i cittadini, entrare in tutte le case informando in real time ha i suoi immensi aspetti positivi, ma questo esercizio dell’arte della politica non sta dando i frutti. I risultati sono sotto gli occhi di tutti: gli italiani disertano le urne. Diversi leader nazionali di partito hanno girato in lungo ed in largo la penisola per ‘catalizzare’ voti ma dopo la comparsata è calato nuovamente il ‘buio’. Il problema nasce perché tutti i rappresentanti del popolo, dai parlamentari ai consiglieri regionali passando per quelli comunali, preferiscono frequentare le stanze del potere piuttosto che vivere il territorio od il collegio elettorale. Il cittadino, così, si sente tradito perché viene ‘considerato tale’ solo alla vigilia di una qualsiasi tornata elettorale per poi passare nel dimenticatoio. Ritornare a far rivivere le sezioni di partito e le segreterie politiche non deve far storcere il naso perché la memoria riporta subito alle storture della prima e parte della seconda Repubblica. Un ritorno al passato contestualizzato nel presente potrebbe essere un modo per cercare di tenere in vita la politica. Il rischio che si corre è un continuo allontanamento dall’appuntamento fondamentale nell’esercizio della democrazia delegando ai pochi la decisione che investe tutti. Disertare le urne è un vulnus al sistema democratico e non una ‘protesta’ democratica. Ed ecco un esempio per far comprendere il concetto. In una città con 50 mila elettori al primo turno si recano alle urne solo la metà degli elettori e nessun candidato raggiunge il quorum per essere immediatamente eletto. Quindi si ricorre alla ballottaggio tra i primi due più votati. Il primo dato che emerge da questo esempio banale è che nessuno ha raccolto la metà più uno dei voti e soprattutto che i cittadini hanno disertato le urne. Arriva il giorno del ballottaggio, dopo altre due settimane di campagna elettorale, ed alle urne si reca il 30% degli elettori: in questo caso diventa sindaco chi tra i due candidati riporta la maggioranza, anche relativa, dei voti validamente espressi. E’ facile comprendere che, se non ci sono schede bianche o nulle, solo 7501 elettori su 50mila eleggono il sindaco: una minoranza che decide per tutti. Le regole sono state seguite e la democrazia è viva, si dirà, ma il primo cittadino diventa espressione solo di una minima parte della comunità e ‘politicamente’ debole. In quadro, così rappresentato, il partito del non voto vince numericamente ma perde nel suo essere parte decisivo della comunità di appartenenza. Il problema della scarsa affluenza al voto è dei partiti che non riescono, dunque, a far scattare quella scintilla nei cittadini-elettori. Da destra a sinistra passando per il costituendo centro i partiti, in questa tornata elettorale, hanno commesso un ulteriore errore. Hanno delegato il proprio ruolo, nel tentativo di fare breccia sull’elettorato, alla cosiddetta società civile. In tantissimi comuni i partiti hanno fatto ricorso al ‘civismo’ nello scegliere il candidato alla fascia tricolore: si sono, praticamente, nascosti dietro liste civiche e candidati civici sperando di trovare il parafulmine giusto. Ed hanno sbagliato ancora. Questo civismo dovrebbe avvicinare i cittadini alla politica e quindi alla gestione della cosa pubblica. Un pensiero nobile ma non è così perché questa pratica nasconde l’intrinseca debolezza che stanno vivendo in questo periodo storico i partiti. Nelle elezioni amministrative, nelle principali città italiane, da Roma a Milano passando per Torino e Napoli, hanno pescato nella società civile: si sono trovati ‘obbligati’ a delegare a terzi quel ruolo di sintesi e di governabilità perché la propria classe dirigente non è in grado di guidare una grande o media città italiana. Questo accade perché, troppo spesso, la politica è scollata dalla comunità locale che vuole gestire ma anche perché i partiti italiani stanno vivendo una fase storica simile ad una maionese impazzita. E il risultato elettorale di questa tornata elettorale lo ha dimostrato. Hanno sbagliato perché hanno sostanzialmente ammesso la loro incapacità ‘politica’, non nella scelta dei singoli candidati, tutte persone rispettabili e stimate, proprio nell’essere leader politici. Tutti o quasi hanno pensato solo al proprio orticello, ad un regolamento di conti interni, per rafforzare la propria personale leadership e quindi auto legittimarsi, nella speranza di poter dare le carte ai prossimi appuntamenti elettorali.

Da metà ottobre, dopo il ballottaggio, tutti si troveranno a dover affrontare il banco di prova più difficile che potesse loro capitare. L’elezione del Presidente della Repubblica è la partita delle partite, è più importante di una finale di coppa del mondo: il risultato finale inciderà sull’intero sistema politico italiano. La partita per il Colle segnerà il futuro della politica italiana: tutto dipenderà dal successore di Sergio Mattarella. Ma a deciderlo sarà la stessa politica che oggi vive su un ottovolante difficilmente controllabile.

Eugenio Bernardo