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Si intitola semplicemente ‘Il libro delle emozioni’, il nuovo libro di Umberto Galimberti, edito da Feltrinelli

«Perché un libro sulle emozioni?» – si interroga il filosofo. «Perché le emozioni, oggi particolarmente valorizzate in ogni ambito, e non di rado elogiate in modo incondizionato, mentre un tempo erano guardate con sospetto per i rischi e i pericoli che comportavano, abitano una terra ancora in gran parte sconosciuta, non perché le numerose ricerche condotte negli ultimi decenni non si siano rivelate abbastanza approfondite, ma perché le emozioni hanno la loro radice nella parte più antica del nostro cervello e i loro effetti nelle parti considerate più nobili della nostra psiche, del nostro sentimento, dei nostri vissuti, delle nostre relazioni sociali e persino delle nostre strutture mentali, che la cultura di un tempo aveva deputato al controllo, quando non alla repressione, delle emozioni.» Il «nostro tempo», infatti, è «caratterizzato dalla progressiva espansione della razionalità tecnica, la quale determina un’ambivalenza emotiva che prevede, da un lato, la rimozione delle emozioni come richiesto da tale razionalità e, dall’altro, una reazione contro questa razionalità, che si esprime con una ritirata emotiva nel proprio sentimento assunto come unica legge di vita.»

Sono stati vari i modelli che nel corso dei secoli hanno tentato di spiegare il mistero: il primo modello, inaugurato da Platone e portato al suo apice dall’odierna mentalità scientifica, «concepisce l’uomo composto da anima e corpo e, partendo da questo punto di vista, guarda le emozioni attribuendole al corpo, ora in conflitto ora in accordo con l’anima.» Un secondo modello, nato in ambito filosofico, – e che Galimberti chiama fenomenologico – «concepisce l’uomo come “corpo” (da non confondere con l’organismo) in relazione non all’anima, ma al “mondo” che lo sollecita, lo stimola, lo impegna.»

Galimberti stigmatizza il «modello, oggi sempre più diffuso, di felicità» che viene «identificata con la salute emotiva e con la capacità di uscir fuori da ogni forma di sofferenza, per la qual cosa è stata coniata una nuova e inutile parola: “resilienza”. Per effetto di questa sottile falsificazione ci viene fatto credere che vivere le proprie emozioni sia l’unico vero spazio in cui poter esprimere la nostra autenticità, salvo poi accorgerci che questo spazio già da tempo non è più nostro, perché già da tempo ci è stato sottratto per essere codificato dalle esigenze della visibilità, del successo e del mercato.»

L’Autore leva la propria voce preoccupata soprattutto per i «nativi digitali che ancora non hanno capito che la rete non è un “mezzo” a loro disposizione che possono usare a loro piacimento, ma è un “mondo” […] in cui sono immersi. Un mondo che li codifica a loro insaputa, modificando il loro modo di pensare e di sentire, con effetti di “de-realizzazione”, per cui non sempre è facile distinguere la distanza che esiste tra reale e virtuale, […] perdendo, in una società che si fa sempre più complessa, quella necessaria competenza sociale che non si scarica da un sito web.»

Da tale processo non è ormai immune nemmeno la scuola, inserita anch’essa in un processo di digitalizzazione i cui effetti si riverberano sull’educazione delle emozioni e dei sentimenti dei ragazzi: una «scuola, che si limita a “istruire” perché, per ragioni oggettive e per ragioni soggettive, non è in grado di “educare”» e che «non ha capito che, senza un’adeguata educazione delle emozioni e dei sentimenti, anche l’intelligenza non si apre»: «Parlo di quell’educazione capace di percorrere il tragitto che, dalle “pulsioni” che tutti noi abbiamo per natura, conduce alle “emozioni”, che consentono ai nostri ragazzi di acquisire quella “risonanza emotiva” che permette loro di “sentire” immediatamente, prima ancora di riflettere, la differenza tra il bene e il male, tra ciò che è grave e ciò che grave non è. Questo tragitto educativo si conclude con il passaggio dalle emozioni ai “sentimenti”, che non sono un fatto naturale, ma culturale. I sentimenti si imparano.»

Quale miglior repertorio di sentimenti se non la letteratura, «dove si apprende cosa sono la gioia, la tristezza, l’entusiasmo, la noia, la tragedia, la speranza, l’illusione, la malinconia, l’esaltazione?» Grazie all’educazione fornita dalle pagine letterarie, «i nostri ragazzi possono disporre di mappe mentali che, in presenza del dolore, ad esempio, sono in grado di indicare, se non le vie d’uscita, almeno le modalità per reggerlo.»

«Fino ai diciotto anni, tutte le scuole – dagli istituti tecnici ai licei classici e scientifici – sono scuole di formazione. Si tratta di formare l’uomo. Le competenze si acquisiscono dopo. Perché non è un uomo colui che è competente senza avere alle spalle una formazione che gli consenta di svolgere con retto giudizio e adeguata comprensione la professione che in seguito sceglierà.»