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Microplastiche: dal mare al cuore

Nell’ambiente, sono disperse tra le otto e le dieci miliardi di tonnellate di plastica; tra una decina di anni, questo peso potrebbe superare quello di tutte le persone presenti sulla Terra. Un dato sconcertante, che distingue erroneamente gli esseri umani dall’ambiente che li circonda: una parte di quei miliardi di tonnellate di plastica è già presente nel nostro peso corporeo. Lo dimostra, in ultimo, uno studio recente della National Natural Science Foundation of China, per il quale si sarebbero trovate microplastiche all’interno del tessuto cardiaco di tutti e quindici i pazienti cardiopatici presi in esame.

Per microplastiche si intende minuscoli pezzi di materiale plastico, di solito inferiori ai cinque millimetri, derivati principalmente dal lavaggio di capi sintetici e dalla degradazione di oggetti più grandi (circa il 68% delle microplastiche presenti negli oceani). Vengono facilmente ingerite dagli animali, assorbite dalle piante e, grazie alla catena alimentare, si depositano nei tessuti umani. Gli effetti delle microplastiche sulla salute umana sono ancora sconosciuti, ma c’è da considerare la presenza di additivi tossici nella loro composizione chimica: averle trovate all’interno di anche un singolo tessuto cardiaco è, comunque, un fatto quantomeno preoccupante.

Le analisi degli scienziati hanno rilevato decine di migliaia di singoli pezzi di plastica, suddivisi in otto tipologie differenti, tra cui PET (utilizzato per il 70% della produzione di bottiglie per liquidi alimentari), PVC e PMMA (impiegato, tra le cose, nei fanali delle automobili e nei triangoli di segnalazione). Ma le analisi sono proseguite anche dopo gli interventi cardiochirurgici previsti per i pazienti e hanno riscontrato un margine di contaminazione in sala operatoria: nei tessuti dei cuori operati, sono state trovate particelle diminuite in dimensione media, ma aumentate in numero e tipologia di plastica presente.

“Le procedure mediche invasive” dichiarano i ricercatori “sono una via trascurata di esposizione alle microplastiche”. Basti pensare che per una singola isterectomia si possono produrre fino a quasi dieci chili di rifiuti, di cui la maggior parte è di plastica. Il settore medico, d’altronde, non può ancora fare a meno della plastica, così economica pur nella sua impeccabile efficienza e sterilità, ma senza una massiccia politica di riciclo, questa pratica non può funzionare. Anzi, come dichiara Sarah Gibbens in un articolo del National Geographic, rischia di andare contro la stessa deontologia medica per cui si giura di “non fare del male”: produrre così tanta microplastica significa, per quanto gli effetti sulla salute siano ancora da chiarire, “fare del male”.

di Alice Franceschi