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TIM: lo spezzatino è servito

Intervento all’iniziativa su TIM di Sinistra Italiana di Sergio Bellucci

Credo che stiamo vivendo uno dei momenti epocali della storia del nostro paese. La vicenda TIM, insieme ad altre, ovviamente, segna un passaggio.  Ciò che riguarda l’infrastruttura di comunicazione del paese, infatti, è, in qualche modo, uno dei passaggi, uno dei nodi di questa fase. Personalmente ho un suggerimento da proporre al dibattito. Passerei da una impostazione che ho sentito tantissimo in questa vicenda come in altre (che capisco e, in parte, condivido) una impostazione legata più alla salvaguardia di un mondo che però “non c’è più”, per lasciare il posto all’idea di lanciare una fase completamente nuova, in cui aprire, diciamo così, una discussione su un altro livello, perché credo che, altrimenti, anche questa battaglia rischia di vederci e sconfitti. Per affrontare questa impostazione vi chiedo la possibilità di fare una premessa. Credo che sia diventata una consapevolezza generalizzata il fatto che si stia vivendo una transizione. Questo, però, non deve essere confuso con l’idea del programma del governo Draghi, il PNRR italiano o la Next Generation UE, ma attiene al passaggio storico da una formazione economica-sociale ad un’altra. Negli ultimi due secoli l’economia si è basata sulla riproduzione della ricchezza fondata sulla produzione di merci e sulla generazione di moneta fiat.  Non posso soffermarmi su questo punto perché questa è soltanto una premessa, ma da un ventennio siamo in presenza della emersione di una forma nuova di accumulazione del capitale che si basa sulla creazione e sulla gestione delle informazioni. Su questo snodo ci sono, ormai, tanti studi accumulati e il riconoscimento del premio Nobel per l’economia del 2018. Una delle novità, ce ne sono tante, riguarda il fatto che questo passaggio, per la prima volta nella storia, avviene su scala globale. E’ un passaggio di formazione economico-sociale che, a differenza delle altre precedenti, non avviene quindi su un territorio e poi si estende a macchia di leopardo ma si sviluppa contemporaneamente su una dimensione globale. La Transizione comporta l’emersione di una nuova classe sociale emergente e che si porta dietro richieste di nuove regole, di nuove forme di convivenza, di nuove istituzioni, di nuove leggi, di nuovi assetti geopolitici. E siccome una transizione non è un pranzo di gala, il passaggio si porta dietro tutte le rotture drammatiche che comporta come sempre accaduto nella storia.  Questo passaggio, che già di per sé sarebbe drammatico, si somma ad altri elementi di rottura anch’essi storici e ineliminabili, come il raggiungimento di limiti nell’utilizzo delle risorse materiali, i limiti nello sviluppo economico, le rotture degli equilibri ambientali, l’emersione consapevole della necessità di una compatibilità del nostro fare, mettendo in luce che i limiti delle catene del valore, che erano state messe insieme nella globalizzazione, potessero in qualche modo a reggere ed andare avanti a livello indefinito. Siamo in presenza della rottura della Globalizzazione “occidentale” nata 30 anni fa, con tutte le drammatiche conseguenze che questo processo comporterà in un mondo che dovrà diventare necessariamente multipolare. Da questo punto di vista, ci sono momenti simbolici nella storia che poi segnano questi passaggi. La pandemia è stata una presa di consapevolezza del dramma sociale legato ad una errata condizione ambientale; la guerra in Ucraina la rottura esplicita della forma degli scambi gestiti unilateralmente. Queste sfide, però, sono state affrontate nel modo “classico”, con la logica precedente, quella legata alla cultura precedente all’emersione di questa nuova formazione economico-sociale, immettendo, cioè, una quantità gigantesca di risorse finanziarie nel sistema. Alla crisi del 2008, che è stata forse l’elemento di svolta, abbiamo risposto con l’emissione di 13 trilioni di dollari nei 5 anni successivi. Alla crisi pandemica del 2020 abbiamo risposto con l’emissione di 30 trilioni di dollari in un anno e mezzo. Oggi abbiamo i risultati con lo sviluppo di processi inflattivi su scala planetaria e segnali di stagnazione che fanno parlare dell’innesco di una fase di stagflazione generalizzata a cui si accompagneranno i drammi derivanti dalla rottura delle catene di approvvigionamento soprattutto nel campo agroalimentare, delle materie prime, dell’energia, dell’acqua. Si sta parlando esplicitamente di allarmi per lo sviluppo di carestie nel mondo per la prima volta da tempo immemorabile. Allora noi oggi dobbiamo prendere atto di questo passaggio e fare le scelte conseguenti. Larry Fink l’amministratore delegato di Blackrock ci dice che “siamo in presenza della fine della globalizzazione così come l’occidente l’aveva costruita”. Questo significa la messa in crisi di strumenti come la World Trade Organization, del Fondo Monetario Internazionale, della Banca Mondiale e della stessa centralità del dollaro che, in pochissimo tempo, è sceso  da essere praticamente l’unica moneta di scambio a livello globale, all’attuale 42% degli scambi globali con l’emersione di valute digitali (che non sono i Bitcoin o le altre criptovalute) in mano ai governi, in particolare quella cinese, in grado di predisporre catene di trasmissione del valore completamente nuove e tutte basate su infrastrutture di reti digitali. Questa nuova dimensione della vita che si sta predisponendo si genera da quella che è stata chiamata, nella vulgata, il nuovo petrolio, cioè i dati. L’informazione come nuovo asse dell’economia. Per questo, credo, non si possa restare dentro la discussione sul futuro di TIM commentando ciò che voglia o non voglia un tale fondo o cosa voglia fare un altro, oppure cosa vogliono gli azionisti di un’azienda che ha questa centralità per tutta la comunità. Noi dobbiamo avere il coraggio di andare oltre, chiedendo a chi ha responsabilità politiche e di governo di battere un colpo, indicare una discontinuità, una mossa del cavallo. Un po’ come fece Mattei, a suo tempo, con il petrolio, indicando al paese una strada di autonomia e di modello imprenditoriale basato su relazioni multipolari. Noi dobbiamo dire che l’Italia deve essere protagonista dentro questa nuova fase di sviluppo digitale non semplicemente perché è uno dei paesi del G7 e possiede una delle strutture politiche sociali economiche più avanzate ma perché l’Italia è portatrice di uno schema industriale multipolare. E’ la storia del nostro paese ad indicarci la via, la sua collocazione strategica nel Meditarraneo, una storia “aperta e connessa” in grado di contribuire non solo a costruire una nuova fase economica ma anche alla costruzione di una nuova pace. Per questo, credo, il destino di Tim non può essere affidato esclusivamente agli interessi degli azionisti o dei fondi, per fare cassa o per retribuire gli interessi di quelli che oggi hanno un’azione o di quelli che dovrebbero entrare per fare profitti domani. Nicola Fratoianni ricorda sicuramente che al tempo della privatizzazione io mi opposi, anche con il mio corpo, alla svendita di Telecom durante il primo governo Prodi, minacciando la crisi di governo un giorno sì e l’altro pure. Ho raccolto in un libro quella storia, Il Decennio Digitale, ove ci sono tutti i protagonisti e tutte le posizioni in campo, politiche e sindacali. Interessi personali, politici, di partito, di aziende, coinvolsero tutti alla ricerca del possibile sfruttamento del 4^ gruppo telefonico del mondo. Gli unici contrari fummo noi di Rifondazione Comunista tacciati di non comprendere che, ormai, le politiche industriali erano roba sovietica e tutto andava lasciato alla mano invisibile del mercato. Noi lì, in quella fase, ci opponevamo “semplicemente” al processo di privatizzazione perché dicevamo che la globalizzazione non doveva essere messa in mano alla Finanza, che c’era un altro modo di gestire i processi globali.  Quell’ipotesi politica ci portò ad incontrare il movimento dei movimenti e a Genova, a sostenere che “un altro mondo era possibile” e a proporre un’alternativa ai modelli di privatizzazione dei servizi pubblici. Dicevamo che, per fare questo, serviva una politica industriale, che c’era bisogno di una visione di quello che doveva e voleva essere l’Italia e, quindi, quella azienda che doveva servire per quella idea di paese. Ricordiamoci che stiamo parlando di un’azienda che nel ‘97/’98, se non ricordo male, aveva un margine operativo lordo di 19000 miliardi di lire (che la portava ad essere uno dei maggiori contribuenti nelle casse del Tesoro) e che contava su più di 122 Mila dipendenti. La gestione “pubblica” di cui tanto si “sparla” oggi! Oggi, quindi, il tema non può essere derubricato alla mera difesa dei numeri occupazionali. Oggi ci sono i segretari dei sindacati e sicuramente su questo batteranno, come si dice, il chiodo. Hanno tutte le ragioni per dire contestare all’azienda che non possono essere i lavoratori a pagare per i loro errori. Qui, però, noi abbiamo bisogno di intervenire dentro questo dibattito per far indicare la strada dentro il processo della transizione, sviluppando un’idea su ciò che potremmo e dovremmo essere dentro questa transizione. Per questo, credo, la proposta su Tim debba andare oltre la discussione per come si è svolta dentro il nostro paese. La discussione della separazione di TIM in due in due aziende (servizi e rete) che poi marciano ognuno per conto loro assume sempre più semplicemente una visione di tipo finanziario. 

Il nostro paese non necessita di due aziende piccole che si omologano ai processi complessivi, cioè quelli di logiche centralizzate in cui Monopoli digitali diventano globali e tu sei un pezzetto di questa roba qua (tra l’altro un pezzetto o cinese o americano, visto che l’Europa è stato sostanzialmente fuori da ogni giro nell’economia digitale) ma di una rilanciata azienda con un cuore pubblico che sappia costruire un modello molteplice, uno schema in cui il livello di decentralizzazione delle strutture di rete e le strutture dell’intelligenza, lavorano per una rottura della logica centralizzata dei Monopoli e contribuiscano a sviluppare Reti autogestite legate ai territori, a costruire uno sviluppo sulla base di autonomie digitali legate al territorio. Guardate che che lo scontro sia su questo punto, che l’interesse sia qua lo dice proprio la trattativa tra Biden e l’Europa dei giorni scorsi. Fratoianni avrà sicuramente seguito con attenzione questo passaggio. I due punti che Biden ha messo al centro della discussione sono stati: il gas (ora lo comprerete da me) e la liberazione dai vincoli normativi sulla gestione dei dati perché le regole europee impediranno di portarli dall’altra parte dell’oceano. Allora noi dobbiamo sfruttare questo passaggio per dire che la guerra, la pandemia, la transizione, uno economia compatibile con l’ambiente, necessità non solo di nuove infrastrutture nazionali ma di una nuova “logica” e che questa logica deve essere centrata sulle necessità delle popolazioni nelle catene di approvvigionamento, nelle nuove forme del valore, nella creazione di nuove autonomie energetiche, alimentari, sanitarie, formative e informative e che tutto ciò si basa proprio sulle nuove logiche che queste nuove infrastrutture possono generare. Per questo il paese necessita di una serie di aziende pubbliche che, su questi terreni vadano a presidiare lo sviluppo di questi nuovo modelli, di questi asset che che noi, in questi anni, abbiamo definito come i beni comuni e che, oggi, non devono solo garantire margini economici e i loro asset ma la stessa possibilità che il paese possa reggere la botta di questa di questa transizione. Il rischio, infatti, è proprio quello della messa in discussione della stessa unitarietà del paese e della stessa sostenibilità della vita nel paese. Quindi il dibattito su TIM oggi deve essere inserito dentro questa logica. Lo sviluppo del sistema nervoso e di una intelligenza sistemica che non possiamo tenere separati, serve alla società di oggi per preparare quella di domani, ipotizzando già, nella sua logica, la nuova forma di economia dei dati post-globalizzazione. Una nuova forma nella gestione di questi modelli economici definisce la nuova e vera sovranità.  Per questo, allora, serve che la politica non si faccia schiacciare nella scelta tra un fondo o quell’altro, restando all’interno del consunto modello industriale ormai al collasso ma abbia un’idea, una visione di quello che deve essere l’infrastruttura di rete e l’intelligenza che servirà al paese domani all’interno della nuova economia che si sta affacciando. Su questo terreno di intervento, allora, si possono affrontare le discussioni sulla forma delle reti, dei servizi, del cloud, della cybersicurezza (chiuderò su questo punto), sulla gestione e il controllo sui cavi internazionali (che non è una cosa secondaria e non rappresenta un caso che il fondo KKR si sia già  posizionato, in passato, proprio su quel segmento con l’ingresso in Sparkle, da dove si possono controllare e gestire i flussi dei dati in questa connessione vitale del nostro paese con il verso del mondo) e arrivare anche a poter gestire eventualmente, anche una sorta di  “concorrenza infrastrutturale” che su alcuni terreni. Tra l’altro questo è il modello che hanno Francia e Germania e che non ha impedito ai capitali privati di mettersi a disposizione di quel modello. Non capisco, quindi, perché l’Italia dovrebbe essere l’unica che si priva di una struttura unitaria nel settore del nevralgico del dello sviluppo, solo per favorire interessi privati di azionisti o di fondi di investimento, continuando una commedia (che è diventata un dramma per il paese) aperto dalla privatizzazione e che ha visto gli azionisti privati acquisire azioni senza mai erogare veri capitali, sfruttare tutto quello che era possibile sfruttare e poi rivendere le loro quote continuando a guadagnarci ulteriormente. Credo che, proprio per questo, si debba chiedere un ruolo nuovo a Cassa Depositi e Prestiti e che il “fondo sovrano italiano” non rimanga lì alla finestra a vedere, semplicemente, come si possa posare un po’ di cavi, ma come determinare un modello nuovo del gruppo e su come usare in maniera “intelligente e coerente” le risorse che il paese ha a disposizione. 

Il paese sta discutendo, proprio queste ore,  dell’aumento delle spese militari e si parla, addirittura, di una possibile crisi di governo. Si parla di portare le spese al 2% con un incremento dello 0,4-0,8%, decine di miliardi che andrebbero spesi per mettere l’Italia dentro questo parametro generalizzato deciso nella NATO. Come potete immaginare io sono contrario a qualunque aumento delle spese per armamenti. Occorre interrompere la spirale che porta a pensare di poter “dialogare con le armi” come sta accadendo in questo frangente. Se però fossi obbligato a dover impiegare dei soldi pubblici, sottraendoli dalle necessità sociali del paese, opterei per una spesa che rappresenti un investimento strategico, dedicherei le risorse tutte sul terreno della cybersicurezza. Possiamo dire ai nostri alleati che l’Italia quel di più che deve mettere in campo lo mette per costruire le infrastrutture necessarie, in campo militare e sulla difesa delle infrastrutture civili pubbliche? E che in questo ambito hanno ragione i ministri che quella spesa produce ricchezza per il paese per oltre alla protezione in ambito militare e civile contribuisce alla creazione di una struttura produttiva capace di creare un ecosistema di Cybersicurezza che oggi non esiste in Italia? e che può mettere quell’ecosistema in grado di generare un posizionamento strategico delle aziende che possono generarsi dal processo? Una scelta di sviluppo di un ecosistema che potrebbe contribuire alla costruzione di una politica industriale e dare “coerenza” militare, civile, economica, ad una spesa pubblica anche quando siamo costretti a subire, diciamo così, un colpo? Una scelta che va verso una nuova collocazione dell’Italia nella economia digitale? Dico questo anche perché ci sono segretari nazionali dei sindacati che, pur se di categoria, appartengono a strutture confederali. Questa scelta potrebbe avere un senso anche per le necessità che attanaglia il settore dell’auto. Il passaggio alle auto elettriche ha visto Francia Germania scegliere a livello governativo le chiare politiche industriali e la loro collocazione. La Francia, con Macron, ha detto che lo stato francese farà tutto ciò che è necessario perché la Francia sia la leader delle auto elettriche e la Germania ha risposto che si candida ad essere leader nella produzione delle batterie di nuova generazione. Noi potremmo ma non abbiamo detto nulla, affermare, in coerenza con l’incremento con questa scelta nell’incremento della spesa militare,  dire che l’italia si candida a diventare leader sullo sviluppo dell’intelligenza che servirà sempre di più alle auto elettriche e a guida autonoma. Per questo, credo che si debba uscire da questa fase difensiva e rilanciare con delle proposte che abbiano un quadro strategico perché, altrimenti, se si sta in campo semplicemente rivendicando il mantenimento dei livelli occupazionali, quando siamo al tavolo della trattativa siamo già consapevoli che ci stiamo predisponendo a tornarci tra sei mesi per un altro taglio. Questo significherebbe stare semplicemente a rimorchio di scelte che porteranno l’Italia in serie B e a disperdere il patrimonio di diversità e specificità che l’Italia ha rappresentato nella storia. Io credo, invece, che sia possibile e necessario lanciare una grande prospettiva di alternativa a questo modello, passando proprio per questa griglia della crisi che sta ormai incombendo su tutto il modello che abbiamo vissuto in questi anni